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Un edificio di cui presto rimarrà solo lo scheletro

Uomini in tute protettive: da otto settimane specialisti rimuovono acribicamente i materiali considerati pericolosi. Oltre a essere prescritta, la bonifica da sostanze nocive è anche un impegno a favore di una tutela ambientale innovativa e di una sicurezza sul lavoro moderna.

Guardando per la prima volta la planimetria del parcheggio multipiano del 1972, Christoph Jegge si chiede quello che si chiede sempre nel suo lavoro: cosa ci sarà che non posso vedere a prima vista? Quali sostanze un tempo usuali ma oggi classificate nocive si troveranno nei rivestimenti dei soffitti, nell’intonaco delle pareti, nelle pitture, nel sigillante per giunti, nello stucco per vetri o negli armadi elettrici?

L’ingegnere ambientale ed esperto in diagnosi di sostanze nocive nelle costruzioni ispeziona gli edifici per pianificarne la bonifica ed elaborare lo specifico piano di smaltimento di tutti gli elementi costituenti. Tra febbraio e la fine di giugno dello scorso anno Jegge trascorre molti giorni nel complesso di edifici 11/12 con il suo collega Christophe Sion, l’ingegnere responsabile della seconda fase di ampliamento del centro amministrativo in Guisanplatz. Raschiano il sigillante dei giunti e vi trovano policlorobifenili, ossia i PCB cancerogeni. Carotano le pareti per estrarre dei provini d’intonaco e analizzarne i quattro strati: due strati di fondo e due di finitura. L’intonaco di finitura non era contaminato, mentre quello di fondo sì: conteneva amianto. Staccano le lastre di zoccolatura ed esaminano il collante, ispezionano l’isolamento, il calcestruzzo e le macchie d’olio. Insomma, analizzano sistematicamente e fin nel minimo dettaglio questo sito, destinato a essere demolito.

Un parcheggio multipiano di quasi 50 anni e una stazione di servizio dell’esercito, che devono essere rimossi per poter iniziare il vero progetto di nuova costruzione: l’edificio D. Per quattro mesi Jegge e Sion ispezionano ambiente per ambiente. I provini vengono mappati, fotografati, analizzati in laboratorio e i risultati vengono classificati. A poco a poco dalle tessere del puzzle emerge una visione di come in questo progetto sia possibile isolare, asportare e smaltire separatamente dai materiali riciclabili le sostanze dannose per la salute e per l’ambiente, come l’amianto, i PCB, gli idrocarburi o le paraffine clorurate. Infine, allegano la loro perizia di oltre cento pagine alla domanda di costruzione ufficiale. Quest’ultima viene approvata dall’ispettorato edilizio insieme ai piani di smaltimento proposti.

«Sono professionista da dodici anni», dice Herman Quintero. «È un lavoro impegnativo, specie la bonifica dell’amianto. Se non sei fisicamente in forma non puoi farlo». Il capo della squadra di bonifica coordina da dieci a 20 specialisti. Gli uomini in tute protettive lavorano ogni giorno secondo i piani elaborati da Jegge e Sion.

Si presume che gli edifici costruiti in Svizzera prima del 1990 siano contaminati da amianto. Ciò vale sia per la classica edilizia residenziale che per gli immobili commerciali. Si conoscono ormai più di 3000 applicazioni dell’amianto: spaziano dalle fioriere agli intonaci, passando per i rivestimenti di facciate. Il minerale naturale fibroso vanta proprietà utili. Essendo, tra le altre cose, resistente, economico da lavorare e ininfiammabile è stato usato in grandi quantità in tutto il mondo. Soprattutto, però, l’amianto è fortemente cancerogeno e pericoloso per gli operai che vengono a contatto con esso durante i lavori di demolizione, come nel cantiere in Guisanplatz. Per questo motivo l’istituto svizzero di assicurazione contro gli infortuni Suva controlla in dettaglio che in un tale progetto siano rispettate le norme federali in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Si lavora in zone sigillate ermeticamente per mezzo di quattro chiuse d’aria disposte in serie. Gli operai addetti alla bonifica indossano tute integrali bianche e maschere respiratorie con presa d’aria fresca separata. Così equipaggiati assomigliano ai ricercatori nei laboratori virologici, ma si servono del martello demolitore e rimuovono l’intonaco dai muri. Quintero dice: «Ogni giorno siamo nella zona per mediamente 30 minuti». Sono consentiti al massimo 90 minuti. Poi si torna all’aria aperta. Di nuovo passando attraverso le quattro chiuse d’aria, ma stavolta per decontaminare il materiale di lavoro e gli indumenti protettivi; nel locale doccia gli operai si lavano per almeno tre minuti prima di rivestirsi nel locale incontaminato. Questo è un rituale che si ripete fino a quattro volte al giorno. Quando l’intonaco si stacca, nell’aria si concentrano milioni di fibre d’amianto per metro cubo. Per neutralizzare l’ambiente a fine lavoro, l’aria viene filtrata e pavimento, pareti e soffitto vengono puliti a umido. La concentrazione massima ammissibile è di 1000 fibre d’amianto al m³.

Laboratori specializzati esaminano al microscopio i filtri dell’aria e analizzano i dati. Solo quando danno il via libera l’area è di nuovo sicura. Allora i detriti contaminati sono stati da tempo imballati ermeticamente, etichettati e pronti per la discarica. Secondo Christoph Jegge, nel linguaggio colloquiale generalizzando si parla spesso di siti contaminati. Più corretto sarebbe chiedere quale bene da proteggere è in primo piano. I siti inquinati sono siti in cui è inquinato il sottosuolo. I siti contaminati sono siti inquinati che devono essere risanati perché mettono in pericolo beni da proteggere come le acque di falda, il suolo o l’aria. In entrambi i casi si tratta di tutelare l’ambiente. Le stazioni di servizio, come ad esempio quella in Guisanplatz, sono il classico caso di un sito inquinato, ma non necessariamente un sito contaminato. La situazione è diversa per le sostanze nocive edili da smaltire, cioè tutto l’amianto o i PCB. Qui torna in primo piano la sicurezza sul lavoro, in modo che gli operai, che sono esposti ai pericoli per tutta la loro vita lavorativa, siano protetti da danni alla salute.

Al primo piano dell’autosilo Andreas Bill manovra una piattaforma aerea verso una delle travi d’acciaio lunghe 40 metri. Anche lui indossa una maschera e indumenti protettivi. Con uno sverniciante alcalino comincia a rimuovere accuratamente la vernice protettiva, riportando a nudo una striscia larga 60 cm. Le travi lunghe 40 metri e tutti i relativi pilastri di sostegno devono essere tagliati per il trasporto. Il problema: se la vernice protettiva contenente PCB viene riscaldata, per esempio con il cannello da taglio, si formano diossine e furani, due composti chimici altamente tossici. «Un problema interessante, e per risolverlo avevamo un certo margine d’innovazione», spiega Jegge. In origine, l’idea era di confinare l’intero capannone e di sverniciare l’acciaio metro per metro.

Questo è un lavoro pericoloso per gli operai. Pertanto, si è esaminato quali travi d’acciaio possono essere tranciate a freddo con le cesoie da demolizione. Le parti troppo grandi per tale procedura andrebbero invece sezionate a caldo in corrispondenza di linee di taglio esattamente definite. Le travi devono quindi essere sverniciate solo nelle zone a destra e a sinistra di esse. «Questa procedura ad hoc ci consente persino di ridurre i costi», precisa Jegge. Sono previsti 320 tagli, ma le travi d’acciaio devono essere sverniciate solo in una sessantina di punti invece che per varie centinaia di metri. In seguito, vengono trasportate dal cantiere direttamente alla Stahl Gerlafingen SA nel Canton Soletta, dove vengono rifuse.

Sul piazzale tra il parcheggio coperto e l’area della stazione di servizio, separati in grandi mucchi o in appositi cassoni di legno, giace ciò che una volta era parte dell’edificio: carta catramata, legno, rivelatori d’incendio potenzialmente radioattivi e tubi fluorescenti. Gli operai hanno rimosso dal pavimento 2,1 chilometri di giunti con il martello demolitore, perché il PCB contenuto nel sigillante si diffonde anche nel calcestruzzo. E in questo dato non sono ancora compresi i giunti delle pareti. Su 1000 m² di superfici vetrate di facciata c’è ancora dello stucco contenente amianto. Il costo totale dei lavori di bonifica ammonta a circa un milione di franchi. Ciò corrisponde a meno dell’un per cento del credito di costruzione approvato dal Parlamento ed è considerato come normale valore indicativo. La tendenza va in una direzione: «Le prescrizioni divengono sempre più severe», osserva Christoph Jegge. «Si aggiungono di continuo nuovi compiti. Quindi cerchiamo sempre di sondare la soluzione migliore», spiega l’ingegnere ambientale. Per fare dunque più di quanto la Confederazione, i Cantoni e i Comuni prescrivono in leggi e aiuti all’esecuzione, in direttive e vincoli ambientali. «Mi piace tenere sotto controllo la bonifica e i relativi costi e trovare comunque un optimum».

Con i pavimenti in calcestruzzo vi si riesce appena. Si potrebbe scarificarli, come di solito spesso accade, fino a una profondità di sette centimetri. Ciò richiede poco tempo, è costoso e produce molti rifiuti pericolosi. Sion e Jegge hanno preferito andare più sul sottile, separare in modo impeccabile, per avviare a smaltimento solo l’indispensabile. Hanno scoperto che si può procedere anche diversamente: nei punti in cui il calcestruzzo è contaminato da olio, gasolio e benzina, – come è normale negli autosilo – è sufficiente asportare da tre a cinque centimetri. Jegge spiega: «È un procedimento davvero dispendioso in termini di tempo, ma offre due vantaggi: a conti fatti è molto più conveniente della soluzione più grossolana. Inoltre, quasi tutto il calcestruzzo da demolizione può essere riciclato nel centro di recupero dei materiali da costruzione Novakies a Lätti, a 20 minuti da Berna, e reimmesso nel ciclo di riutilizzo».

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